Tra le vittime collaterali della guerra in Ucraina rischia di finirci anche il piano europeo per la transizione energetica e ambientale. Le sanzioni alla Russia, l’eventuale e assai temuta escalation del conflitto, ma anche solo il suo protrarsi nel tempo, sono tutti elementi che rendono assai improbabile il rispetto delle scadenze previste. I sindacati italiani dell’industria -così come i loro colleghi europei- sui tempi della transizione hanno fin dall’inizio espresso forti dubbi. Oggi Marco Falcinelli, segretario generale della Filctem Cgil, la categoria che riunisce chimici, tessili, vetro, eccetera, fa il punto della situazione. E avanza qualche proposta alternativa: a partire dal rinvio delle scadenze fissate, in particolare per il motore elettrico e l’uscita dal gas.

Falcinelli, le sanzioni alla Russia per ora non toccano il gas, ma non si sa per quanto. Secondo lei, quanto peserà la guerra in Ucraina sulla situazione energetica italiana?

L’energia ha sempre rappresentato un punto di rottura negli equilibri, anche dal punto di vista geopolitico. Oggi la Russia incassa circa 50 miliardi l’anno dalla vendita di gas all’Europa. Possiamo anche chiudere i rubinetti, ma Mosca continua ogni giorno, e continuerà, a trattare gas con la Cina. Per quanto riguarda l’Italia, la guerra sicuramente può peggiorare la nostra situazione, ma anche prima non è che stessimo in una botte di ferro dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico.

Si spieghi meglio.

Lo scorso anno abbiamo consumato 76 miliardi di metri cubi di gas. La nostra produzione è di 3 miliardi di metri cubi. La differenza fra 3 miliardi e 76 miliardi è coperta per il 45% dal gas che arriva dalla Russia, mentre un’altra parte viene dall’Algeria e dall’Azerbaijan, quest’ultimo grazie al Tap.

Del Tap adesso si pensa di raddoppiare la portata, no?

Si, ma perché questo davvero avvenga ci vorranno almeno cinque anni. Inoltre, ricordo che il referendum aveva bloccato le trivellazioni a 12 miglia dalla costa, in attesa del piano apposito, il Pitesai. Ora, con un anno e mezzo di ritardi, il piano è finalmente uscito, ma non servirà a risolvere il problema, anzi: invece di consentire l’aumento della produzione di gas la limiterà ulteriormente.

Sembra paradossale. Motivo?

Il Piano ha definito come area protetta una specifica zona in alto Adriatico dove è collocata una riserva di almeno 40 miliardi di metri cubi di gas. Dunque, non potremo fare altre trivellazioni in quella zona. Non solo: saranno limitate le attività delle piattaforme già esistenti. Quell’area, però, sta al limite delle acque territoriali della Croazia, che ha piazzato proprio lì due enormi piattaforme con le quali attinge liberamente a quegli stessi pozzi, per poi rivendere all’Italia il gas a prezzo maggiorato rispetto a quanto ci costerebbe se lo estraessimo direttamente. Faccio un esempio concreto: il costo di estrazione del gas a Ravenna è di 5 centesimi al metro cubo, mentre alla Russia lo paghiamo 55 centesimi al metro cubo.  Per cui, quando il governo dice ‘via libera alla produzione di gas nazionale”, sarebbe il caso di chiedergli: si, ma dove? Nel frattempo, mancano le risposte alle esigenze dell’industria come dei cittadini. E, sempre nel frattempo, lo stato ha già speso 25 miliardi per calmierare le bollette. E non è rassicurante che il Governo dica che queste risorse non derivano da scostamenti di bilancio perché questo significa determinare tagli ad altre spese fondamentali come sanità istruzione, assistenza sociale.

Si dice che comunque le nostre riserve di gas saranno sufficienti, che ora si va verso la bella stagione e i consumi si abbasseranno, è così?

Dipende. Non va dimenticato che noi il gas lo usiamo anche per produrre elettricità, non solo riscaldamento. D’estate vanno i condizionatori, per dire. E le estati molto calde hanno già prodotto in passato picchi di consumi.

E guardando più avanti nel tempo, come la vede? Reggerà il piano per la transizione energetica e ambientale messo a punto con tanta fatica?

Dipende da come si evolve la situazione in Ucraina, da quanto durerà. Ma il rischio è che difficilmente gli obiettivi temporali stabiliti dall’Europa per la transizione potranno essere rispettati. Già si vedono le prime conseguenze. La Germania ha chiuso Nord Stream 2 e riportato in auge il carbone, e rallenterà l’uscita completa dal nucleare.

E in Italia?

Da noi la situazione è ancora più complessa, visto che dipendiamo quasi totalmente da altri paesi, non solo dalla Russia. Le sette centrali a carbone ancora operative dovevano chiudere nel 2025, ma nei giorni scorsi è stata autorizzata dal governo la continuità produttiva. Per quelle già chiuse si prevede la riapertura. Anche Civitavecchia, dopo la bocciatura del progetto di riconversione a gas, continuerà a produrre carbone. E ancora: per il progetto sulle pale eoliche al largo delle coste del Lazio ci vorranno anni. Io credo che una Europa attenta, alla luce di tutto questo, dovrebbe tornare a ragionare sulle date. In prospettiva, comunque, penso che l’Unione europea dovrebbe, con l’energia, comportarsi come coi vaccini: negoziare direttamente a nome di tutti i paesi aderenti sia sui prezzi sia sugli stoccaggi comuni, e poi distribuire sulla base delle necessità. E senza mai perdere di vista quelli che sono gli aspetti sociali del problema. Altrimenti l’esito può essere devastante.

Voi però sulle scadenze della transizione avete espresso dubbi fin dall’inizio. Sia sull’uscita dal gas che sul passaggio al motore elettrico.

Dobbiamo fare i conti con la realtà. Che era già complicata prima, e che ora, con la questione Ucraina, lo è ancora di più. E tuttavia, non si tratta di un problema contingente: dobbiamo ragionare nel lungo periodo, e cercare di risolvere davvero il nostro problema di dipendenza energetica. Evitando però di passare da una dipendenza all’altra.

In che senso passare da una dipendenza all’altra?

Oggi si guarda alla Russia per il gas, ma bisogna avere chiaro che sarà la Cina ad essere sempre più forte sul fronte energia, cambiando notevolmente il quadro di riferimento a cui siamo abituati da sempre. Fin qui ci si confrontava con un certo numero di produttori -di gas, di petrolio- il che consentiva di stare dentro una logica di mercato. Ma con le rinnovabili questo sistema è destinato a cambiare drasticamente: l’unico paese con cui negoziare la materia prima per produrre le rinnovabili e la relativa tecnologia sarà appunto la Cina, che si è accaparrata i giacimenti di terre rare, minerali, di tutto quello che occorre per l’energia del futuro. Per questo dico che rischiamo di passare da una dipendenza all’altra. È un ragionamento che viene sottovalutato, purtroppo. E per quanto riguarda l’Italia, la verità è che noi non abbiamo né le filiere industriali né le materie prime necessarie per le rinnovabili. Pale eoliche, pannelli, eccetera: compriamo tutto dall’estero. Anche per l’idrogeno: servono i processi di cattura e stoccaggio, o gli elettrolizzatori, e non ne produciamo.

Passi per le terre rare, ma la tecnologia, le apparecchiature, non possiamo semplicemente iniziare a produrle?

Se ci fosse un disegno di politica industriale, potremmo. Ma non c’è. Nemmeno nel Pnrr, da nessuna parte, sta scritto che inizieremo a fare investimenti su queste tecnologie. Si guarda solo al mercato, all’acquisto. Quando la Cgil dice che sarebbe necessaria una Agenzia nazionale per lo sviluppo, non è l’Iri che abbiamo in mente. Anche se va detto che quando c’erano le Partecipazioni statali, con le aziende leader, almeno loro orientavano la politica industriale del paese. Finite le Ppss, per tante ragioni certamente anche giuste, è però finita anche la politica industriale. Ed è finita perché è finito il ruolo dello stato in economia. Pensi alle gigafactory per la produzione di batterie: sono i grandi gruppi industriali che decidono dove aprirle, lo stato non ci mette bocca.

Però lo stato in passato metteva bocca anche in modo discutibile: spesso quella che si spacciava per politica industriale erano le scelte di interessi politici specifici, clientelari, che orientavano gli investimenti. Penso al caotico e fallimentare sviluppo del sud, alle cattedrali nel deserto, eccetera.

Vero, ma siamo passati da un eccesso all’altro, oggi lo stato in materia di politica industriale non decide più nulla, e questo è un danno al paese.

Ma quindi, per tornare all’energia, cosa dovremmo fare, per essere più autonomi e meno esposti?

Certamente continuare a investire sulle rinnovabili, ma intanto togliendo i colli di bottiglia che ne rallentano lo sviluppo, come i tempi lunghissimi per le autorizzazioni. Al Mite ci sono centinaia di domande per progetti che attendono da anni. Il tempo medio per un via libera in Spagna è di tre mesi, in Italia ventiquattro, se va bene.  Adesso tutti dicono: puntiamo sul gas liquido proveniente dagli Usa per parare il colpo della Russia. Benissimo. Ma al momento abbiamo solo tre rigassificatori, perché i Comuni si rifiutano di ospitarli. E ancora, parliamo dell’energia circolare, quella che si ottiene dai rifiuti: ma tentare di realizzare un biodigestore è una mission impossibile. Chieda a Zingaretti, che battaglia sta affrontando nel Lazio per aprirne uno.

Si è parlato anche di puntare sui biocarburanti, in alternativa al motore elettrico: sarebbe una ipotesi realistica? o un ritorno al passato? ricordo che il bioetanolo era già una fissa di Raul Gardini ai tempi dell’Enimont, e parliamo di trent’anni fa.

Io penso che puntare sui biocarburanti sarebbe una buona soluzione intermedia per aiutare la transizione all’elettrico. Ma anche qui ci sarebbero da risolvere diversi nodi, primo dei quali sono i costi troppo elevati: già adesso, volendo, alla pompa di rifornimento si potrebbe scegliere il cosiddetto gasolio plus, ovvero col 20% di biocarburante, ma è una opzione di pochi, proprio perché costa sensibilmente più del gasolio normale. Eppure, puntare sui biocarburanti risolverebbe diversi problemi, non solo ambientali. Per esempio, tra breve avremo il problema delle raffinerie: se si produce molto meno petrolio non saranno più necessarie. Sia a Porto Marghera che a Gela abbiamo già due raffinerie di biocarburante, e almeno altre due raffinerie dell’Eni potrebbero essere riconvertite, invece che chiuse. Se si risolvesse il problema costo, che del resto è dovuto in gran parte alla fiscalità, sarebbe una svolta interessante.

Ma sul serio potremmo essere autonomi, sui biocarburanti? li vede davvero come alternativa al motore elettrico, verso il quale si sta ormai orientando tutto il mondo?

La tecnologia l’abbiamo, le raffinerie anche, si tratterebbe di individuare le aree nelle quali coltivare le produzioni agricole necessarie, non sottraendole ovviamente alla produzione di alimenti, come canna da zucchero, cardi, eccetera. I biocarburanti potrebbero allungare la vita al motore tradizionale, e consentirci di gestire meglio la transizione verso l’elettrico, con un orizzonte di tempo maggiore rispetto alla tagliola del 2035, che lascerebbe morti e feriti sul campo industriale. Inoltre, deve essere chiaro che, a oggi, non saremmo comunque in grado di alimentare elettricamente l’intero parco macchine circolante: per mancanza di potenza produttiva elettrica e per mancanza di infrastrutture di ricarica come le colonnine.

Si potrebbe obiettare che investire nel biocarburante, sapendo che comunque andrà a morire, sarebbe antieconomico, non crede?

Se si vuole gestire correttamente la transizione dal punto di vista sociale, il cambiamento deve essere graduale, in funzione del paese. Un salto drastico causerebbe una ecatombe occupazionale nell’automotive, lo dicono i metalmeccanici e lo dicono le imprese del settore. E lo diciamo anche noi, perché nelle auto, lo si dimentica spesso, c’è tantissima chimica, plastica, vetro, gomma. Accompagnare il processo con un interregno, basato anche sui biocarburanti, darebbe risposta all’ambiente e al sociale. E intanto si potrebbe più serenamente e razionalmente investire sul futuro, cioè sull’elettrico.

Altre cose che potremmo fare subito?

Per restare sul tema delle rinnovabili, andrebbe ricordato che la metà di quella che produciamo, e che rappresenta il 38% del fabbisogno, arriva dall’idroelettrico. L’Italia è un paese di fiumi, laghi, bacini, eppure non c’è nessun investimento da parte dei grandi gruppi del settore sull’idroelettrico.

Per quale motivo?

Perché in virtù della riforma del Titolo V le concessioni per i bacini sono in capo alle singole regioni, e dunque è sempre una scommessa, per cui si ritiene più conveniente investire in altri settori. Ma questo vale anche per il geotermico, l’energia che viene dal sottosuolo: in Toscana, per dire, abbiamo “giacimenti” consistenti, ma viene usato solo in maniera marginale. Stesso discorso potremmo farlo per l’energia prodotta dalle biomasse.

In questi ultimi mesi abbiamo visto molte iniziative allarmate sul tema della transizione energetica, organizzate da diverse categorie dell’industria e relative controparti: metalmeccanici, chimici, edili, eccetera. È l’inizio di una serie di nuove alleanze?

I settori interessati alla transizione sono interconnessi, e coinvolgono molte categorie, diverse ma accomunate dal problema. Ma è comunque necessaria una forte regia confederale sul tema dell’energia, proprio per evitare che ogni categoria ritagli le sue strategie solo sulle esigenze specifiche dei settori.

Sta di fatto che ci sono importanti settori industriali ai quali l’uscita dal gas sta stretta, non è così?

Cementifici, acciaierie, vetro, ceramica, non possono fare a meno del gas, e di questo bisogna convincersi. Non si tratta di difendere il “vecchio’‘, ma di guardare al futuro tenendo i piedi per terra. Noi abbiamo bisogno di un mix energetico, non possiamo immaginare di puntare su un sistema solo. Se poi lei mi chiede: arriverà il momento di usare solo rinnovabili? la mia risposta è: sì. Ma a patto di investirci molti soldi oggi.

Di Nunzia Penelope. Il Diario del Lavoro,  7 marzo 2022

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