Il Diario del lavoro, 1° luglio 2022.
Marco Falcinelli, segretario generale della Filctem Cgil, la federazione che raduna varie industrie tra cui quella dei Chimici, fa il punto sul rinnovo contrattuale della categoria appena firmato, sulle relazioni industriali nel settore e sul salario minimo.

Falcinelli, anche stavolta i chimici hanno tagliato il traguardo del contratto in tempo record, e per di più con un cospicuo aumento salariale di ben 204 euro. Come ci siete riusciti?

Come sempre: grazie a un sistema di relazioni industriali che ci consente di arrivare alla fase finale di una trattativa quantomeno con una intesa di base con la controparte. Questo perché tra un rinnovo contrattuale e l’altro lavora l’Osservatorio nazionale: un luogo neutro, non negoziale, dove le parti si confrontano continuamente sugli scenari del settore. E se si condivide lo scenario di fondo, se si concorda su alcune cose di base, poi il percorso che resta da fare è breve. Questo ci ha consentito di rinnovare il contratto anche in anticipo rispetto alla scadenza. Ed è un valore aggiunto, perché ci ha evitato di subire eccessivamente l’impatto di alcune variabili esterne su alcuni temi di discussione generale che ci sono nel paese come, ad esempio, la discussione sul salario minimo e quella del modello contrattuale e al peso dell’inflazione.

Cosa ne pensa del Patto della fabbrica in base al quale si definiscono le regole per il rinnovo dei contratti? È un metodo ancora valido?

In realtà l’accordo del 2018 presenta ormai alcuni limiti. Proprio a partire dal modello degli aumenti salariali: l’Ipca depurato dagli andamenti dei costi energetici oggi non è un indicatore adeguato. Fortunatamente, all’epoca del Patto, e proprio su spinta dei Chimici, in quell’accordo siamo riusciti a inserire la norma di considerare valide anche le prassi consolidate dei settori. Un’ancora di salvezza che oggi ci consente di definire gli aumenti salariali tenendo conto del valore punto, quel meccanismo ideato all’inizio degli anni Novanta dalla Filcea guidata da Sergio Cofferati, un indicatore che considera sia l’inflazione sia l’insieme dei salari medi del settore.

Come funziona, in concreto?

Farmindustria e Federchimica ci consegnano periodicamente una indagine sulle retribuzioni del settore: una fotografia reale del salario medio che, considerando tutte le voci, è superiore a quello delle tabelle contrattuali sullo stesso livello. Da quel rapporto si parte poi per definire il valore punto, indicatore sul quale si stabilisce l’entità dell’aumento. A differenza dell’Ipca, questo sistema risponde bene sia quando l’inflazione è bassa sia quando oscilla verso l’alto come oggi.

Ma se funziona così bene per quale motivo non viene applicato da tutti?

Il meccanismo da solo non basta: non è solo questione di ingegneria contrattuale, occorre anche la “politica”, ovvero una cultura di relazioni industriali di un certo tipo, come appunto è quella dei chimici. Un meccanismo del genere implica che le relazioni industriali siano credibili e affidabili. Il che non esclude ovviamente il conflitto, ma lo considera come ultima spiaggia.

E mi scusi se insisto, ma perché il rapporto sui salari non lo presentano anche altre categorie? Non sarebbe tutto più semplice?

Nella fotografia del salario reale di cui parlo viene considerato non solo il contratto nazionale ma anche i risultati della contrattazione di secondo livello: cosa a cui Confindustria si oppone da sempre, perché vuole che le due dinamiche salariali, nazionale e aziendale, restino assolutamente separate.

Considerando che le vostre retribuzioni sono più elevate della media, cosa pensano i chimici del salario minimo? Sarebbe utile?

Che in Italia ci sia una fascia di circa 4 milioni di lavoratori poveri, con paghe da fame, è un dato di fatto. La spinta al salario minimo viene appunto da questo elemento, che a sua volta è dovuto in gran parte ai contratti pirata. Per questo credo che andrebbe affrontato prima il problema di una legge sulla rappresentanza, che elimini i contratti di comodo, e solo dopo, eventualmente, un intervento sul salario minimo.

Eventualmente? Cioè non la convince, il salario minimo?

Intendo dire che occorre tenere conto che ci sono alcuni settori nei quali i lavoratori raggiungono appena i 25 mila euro annui, ma altri settori hanno invece salari ben più alti. Nel settore chimico, o nell’energia, l’elettrico, il farmaceutico, le retribuzioni orarie sono, ad esempio, al di sopra della cifra di 9 euro di cui si parla molto. Se si interviene sul salario minimo va tenuto conto di queste differenze.

La proposta del ministro Orlando andrebbe in questa direzione?

La proposta di Orlando è molto diversa da quella del suo predecessore, l’ex ministro Nunzia Catalfo. L’idea di Orlando non prende a riferimento solo i minimi tabellari, come la proposta Catalfo, ma il Tec, che ad esempio, in linea teorica, potrebbe essere assimilabile al valore punto dei chimici.

Ma questo risolverebbe o no il problema delle troppo magre buste paga italiane?

Il problema delle retribuzioni si risolve innanzi tutto rinnovando i contratti nei tempi giusti: sono i contratti lo strumento naturale per aumentare le buste paga. Il giorno dopo la firma del nostro contratto, per esempio, è stato rinnovato anche quello della Sanità pubblica: ma noi eravamo in anticipo, mentre la Sanità aveva otto anni di ritardo. E ripeto: se si fa il salario minimo, va tenuto conto che “salario” è tante cose, non solo le tabelle dei contratti. Per noi, per esempio, vale anche la previdenza integrativa, anche quella è “salario”. Poi occorre una riforma fiscale che abbatta la tassazione sul lavoro e renda il sistema più equo attraverso una vera progressività del prelievo. Infine, per sconfiggere i contratti pirata, vera origine del fenomeno del dumping salariale serve una legge sulla rappresentanza. L’insieme di queste azioni porterebbe sicuramente risultati significativi sulle retribuzioni dei lavoratori del nostro Paese.

Torniamo a quella cultura delle relazioni industriali che vi caratterizza: esiste da diversi decenni, e malgrado il turn over dei gruppi dirigenti, sia sindacali che delle controparti, non è mai stata messa in discussione. Quando lei dice conta anche “la politica”: è in elemento che cammina sulle gambe degli uomini, i quali appunto cambiano; ma nelle relazioni industriale della Chimica la linea è rimasta la stessa, non c’è mai stato un problema di “falchi” o “colombe”. Come ci riuscite?

Grazie alla cultura di impresa, che va intesa in senso largo perché riguarda anche i lavoratori, che c’è nel settore: è quella che fa sì che il principio rimanga, al di là degli uomini che lo rappresentano. Il cambiamento dei gruppi dirigenti, sia nel sindacato, sia nelle nostre controparti, ha arricchito il sistema di nuove esperienze, ma è sempre rimasta centrale la cultura del settore. E mi lasci aggiungere: questo sistema non ce lo ha regalato nessuno, abbiamo dimostrato nell’arco degli ultimi tre decenni di essere affidabili e credibili. Penso alle grandi ristrutturazioni che il comparto ha avuto, al passaggio, difficilissimo, dalla chimica pubblica a quella privata degli anni Novanta: in ciascuna di quelle temperie noi non abbiamo mai detto “è un problema dell’impresa, non nostro”. Conflittuali quando serve, ma mai a prescindere.

Una “cultura dei padri” che si tramanda di decennio in decennio, quindi?

È una cultura che abbiamo in parte ereditata, ma abbiamo sempre continuato a costruirci sopra. Questo sistema da stabilità alle imprese, che hanno la certezza dei costi, ma anche ai lavoratori, che sanno esattamente cosa aspettarsi. E non parlo solo del lato economico: nel nostro settore il 95 per cento dei contratti è a tempo indeterminato, anche perché è un settore ad alta tecnologia, che richiede competenze elevate, e infatti i nostri lavoratori sono tutti diplomati o laureati.

Lo sa che così risultate un po’ secchioni, i primi della classe? Non a caso talvolta venite considerati una sorta di contraltare dei metalmeccanici, ben più numerosi, più barricaderi, e pure più, diciamo, famosi; le tute blu fanno sempre notizia, nel bene e nel male, voi avete meno eco mediatica, anche quando firmate un contratto con ben 204 euro di aumento.

Ma no, nessun contraltare: noi con i metalmeccanici andiamo molto d’accordo, tra l’altro ci sta accomunando il fatto di dover affrontare assieme quella faccenda complicatissima che sarà la transizione energetica: sull’auto ci siamo anche noi, con tutta la parte di componentistica in plastica, vetro, gomma, materiali vari. Noi e i meccanici siamo molto preoccupati per quello che potrà accadere. Anzi, mi lasci dire che sta già accadendo. Per questo chiediamo esattamente la stessa cosa: che in questo paese si possa finalmente parlare di Politica Industriale.

di Nunzia Penelope. 

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